Capitolo VI del nuovo romanzo di Luca Gini. Contenuto presente solo sul sito ed inviato agli iscritti alla newsletter.
VI
Tornai a casa da Elisa. Quando entrai ci salutammo brevemente.
«Mi telefoni abbastanza spesso, ma mai per dirmi che tieni a me»
Era vero. Verissimo, lapalissiano. Non potevo replicare.
«Non è vero» – replicai –
«Dimmi l’ultima volta che mi hai fatto un complimento.»
«Ieri» – mentii –
«Io non me lo ricordo»
«Mentre stavi uscendo»
«Mentre stavo uscendo tu dormivi»
Ero all’angolo, stava per arrivare l’uppercut definitivo.
«L’ho detto a bassa voce»
«See. Faccio finta di crederci.»
Per ora ero salvo, ma quanto potevo andare avanti con queste menzogne? Non sapevo nemmeno io di preciso perché continuavo così.
«Ho conosciuto una persona online» – Disse lei –
Sapevo che frequentava i siti di incontri. Non gliene facevo una colpa. La facevo a me caso mai.
Adesso avrei dovuto fare una mossa. Una grande mossa per riprendere il controllo della situazione. Qualcosa che l’avrebbe stupita, ammaliata, conquistata. Qualcosa che avrebbe spazzato via ogni altro contendente, possibilità, alternativa.
Che l’avrebbe fatta diventare mia per sempre. Adesso dovevo finalmente prendere posizione.
«Vado a fare due passi» – Dissi –
«Ciao.»
Uscii senza sbattere la porta. Ero fuori.
Il vento mi scompigliava i capelli, faceva freddo. Non sapevo nemmeno di preciso dove andare, né cosa fare.
«Tutto ciò che non sei tu
E’ sofferenza
Tutto ciò che non sei tu
E’ l’uomo che crolla.»
Dovevano essere versi di Carnevali. Era vero. Tutto ciò che non era lei, era sofferenza. Mi faceva divertire. Mi tirava su. Era la persona con cui parlavo, che mi faceva ragionare. Era la parte sana della mia vita, forse l’unica. Tutto ciò che non era lei, era l’uomo che crolla.
Quanto avrei voluto essere innamorato. Anche solo invaghito. Invece ero per strada.
«La città è silente,
immobile;
nessuno parla di
ceppo responsabile,
di antigene,
i rami sono quieti,
la sera d’inverno mite.»
Non era ancora inverno, era autunno. Camminando ero arrivato nel parco. Era un piccolo parco nella zona residenziale, c’era un canestro, un piccolo campo da calcio, degli attrezzi ginnici scadenti. Mi misi a sedere su una panchina.
Stava cominciando a fare buio, non c’erano molti altri posti dove andare.
L’erba era alta. Un vento autunnale spostava le foglie sul prato. Il campo da calcio era quasi senza erba, con tanti buchi, e ciuffi che spuntavano ogni tanto. C’era una persona che portava a spasso il cane. Il sole era calato, rimaneva un vago chiarore in cielo.
Ero immerso nei miei pensieri quando vidi un cespuglio muoversi. Mi spaventai e misi una mano in tasca, alla ricerca della grossa chiave della macchina. Meglio di niente.
Dal cespuglio uscì un uomo vestito di nero, con una bici.
Lo riconobbi, era Boccetta.
Nessuno sapeva di preciso come Boccetta, che ovviamente non era il suo vero nome, fosse arrivato dalle nostre parti. L’accento non si capiva da dove diavolo venisse, ma di sicuro non era di qui. Sembrava un non identificabile accento del nord. Io la sapevo la sua vita. Era un barbone, ma un barbone che ci sapeva fare. Aveva anche lavorato per lunghi periodi, negli anni. Aveva messo da parte dei soldi, ma sempre facendo il barbone. A lui piaceva così.
Adesso si divertiva a fare l’arrotino itinerante, con la sua bicicletta scassata con innestata la pietra per affilare, azionata da un meccanismo collegato ai pedali. Gli piaceva chiacchierare.
«Ciao Boccetta.»
«Ragazzaccio. Che giri? Non è un posto buono per starci di notte.»
«E te invece?»
«Tzé. A me che vuoi che mi facciano? Mi derubano? C’ho tre spicci. Mi fregano la bicicletta? Con la mola? Ma chi se la piglia. Non ho paura di nulla, io» – rise –
«Beato te. Cosa fai qui?»
«Ah, nulla, facevo un giro prima di andare a lavorare.»
«Dove devi andare?»
«Al Piccione stordito, ad affilargli i coltelli.»
«Vengo con te, dissi»
Non me la sentivo di tornare da Elisa. Tanto la spesa gliela avevo riportata, avrebbe avuto da mangiare qualcosa.
Boccetta spingeva la sua vecchia bici modificata, io lo seguivo.
«Boccetta, l’altra volta mi raccontavi di quando stavi a Viareggio a fare il barbone, poi ci hanno interrotto.»
«Ah, si già»
Boccetta aveva questa mania di vestirsi da boscaiolo. Aveva una t shirt bianca, sporca, dei pantaloni di jeans, sicuramente non puliti, e degli stivaletti consumati, graffiati e fangosi.
Le dita delle mani erano a punta, gonfiate da anni di lavoro manuale. La barba incolta, i denti soggetti ad una certa piorrea, probabilmente per le molte sigarette ed il non poco alcool. Aveva una pancia enorme, a causa del bere. Non era una persona stupida.
«Quando stavo a Viareggio erano bei tempi»
«Ma facevi il barbone?»
«Eccerto. Viareggio era il posto migliore per fare il barbone.»
«Come mai?»
«La gente a Viareggio ha i soldi. Lo sai quanto facevo al giorno di elemosina?»
«No… non ho idea.»
«Centoventi euro»
«E dove dormivi?»
«In albergo.»
Passammo davanti le case della zona residenziale. C’erano alcuni begli edifici. C’era una casa bianca, alta, con un grande lucernario in cima, cipressi fitti ed alti intorno, un grande cancello in ferro battuto. Davanti il cancello, che era stato ricoperto da lastre di metallo per aumentare la privacy, c’era un gatto. Era bianco e grigio, di pelo lungo, vaporoso. Ti guardava impettito, seduto, con le zampe anteriori dritte, il petto bianchissimo in fuori, coda arricciata intorno alle zampe.
Era un gatto stupendo, sembra quello di una vecchia pubblicità di cibo gourmet.
Avrei adorato avere un gatto in quel modo.
Poi passammo davanti alla Croce Rossa, ai carabinieri, ed ancora case residenziali.
Ora davanti a noi c’era la stazione, con l’orologio in cima e la piazzetta davanti piena di umanità poco raccomandabile.
Costeggiammo la ferrovia, poi sotto il sottopassaggio (un treno passò e fece un baccano infernale), poi eravamo sulla salita ed infine dall’altra parte. Di lì a poco, sulla destra, c’era il Piccione Stordito.
«Buonasera!» – disse Boccetta –
«Ooo!» – fece eco il barman. Si abbracciarono –
Boccetta sorrideva con i suoi denti mangiati dalla piorrea, dall’altra parte Gigi, il barman, gli dava energiche pacche sulla spalla.
«Insomma, dove sono ‘sti coltelli?»
«Ora te li porto, campione»
Il locale era piccolo, minuscolo. C’era un singolo tavolino, una mensola con dei giornali anarchici ed un computer. Il banco era pieno di piante aromatiche da servire coi Gin Tonic. Il barista era basso di statura, vestiva con dei pantaloni larghissimi, scarpe da ginnastica veramente grosse e bombate, maglia larga, cappello da baseball.
Fuori c’erano altri personaggi assortiti, tra cui uno che sembrava un po’ Super Mario (aveva pure baffetti e salopette), con una maglia verde. Era un ibrido tra Mario e Luigi.
Tutti stavano bevendo, un ragazzo si stava rollando una canna.
Dentro sentivo la voce roca del barman che urlava qualcosa.
In quel momento passò davanti a noi un furgone bianco, seguito da un ragazzo in pantaloncini, scarpe e maglia sportiva. Guardai meglio, aveva in mano una fiaccola accesa. Sembrava il tedoforo delle olimpiadi, quello che portava la fiaccola. Ma che faceva lì? In quel momento il furgone si fermò, e scese una ragazza con un paio di leggins attillati, blu, scarpe da ginnastica, una maglietta a maniche corte. La maglietta lasciava intravedere un po’ della pancia, piatta, con delle delicate linee che tracciavano i suoi muscoli addominali. Le gambe erano toniche, scolpite. Si potevano vedere i singoli muscoli al di sotto dei leggins, che andavano a creare, con il resto della figura, un’immagine di giovinezza e vigore.
Il tipo vestito da Super Mario ruttò. La tedofora iniziò il suo turno, e vedemmo passare il furgone davanti a noi, con gli altri tedofori dentro pronti per dare il cambio.
Controllai sul cellulare: non era stata un’allucinazione. I tedofori arrivavano dall’Albania, stavano risalendo l’Italia, e dovevano passare da noi. Era un percorso lungo due anni.
«Ooo! Si beve o si perde tempo!?» – disse il barista con voce gracchiante –
Entrai dentro, mi presi un gin tonic, uscii fuori. Era ormai notte. Il cielo era nero, ma c’era la luna piena e si intravedeva qualche stella. Cercai le Pleiadi, come faccio sempre. Le considero la mia costellazione fortunata. Lo so che non sono una costellazione a sé, ma una volta che le hai individuate sono così caratteristiche. Sembrano un uncino, o il pungiglione di uno scorpione. Perlomeno a me… ho scoperto che nella storia dell’umanità le hanno paragonate a qualsiasi cosa: sette sorelle, chioccette, ma mai un pungiglione. Io ce lo vedevo. Se avessi dovuto decidere io avrei fatto come minimo la «Costellazione dell’Uncino».
In lontananza sentivo i rumori dei treni che passavano, distanti un centinaio di metri. Provai improvvisamente la voglia di essere in un campo, con l’odore dell’erba, quello delle piante. Il piccolo circolo del paesello da dove venivo era accanto ai campi. Lì potevi uscire fuori, metterti sul muretto di cemento accanto, guardare a sinistra e vedere le lucciole, nella stagione giusta. Come sarebbe stato bello vivere cento anni prima, in una dimensione più rurale. Più contadina, più ignorante. Ignorare.
«Benedetta l’ignoranza infinita»
Invece di sapere che eravamo una briciola nell’universo, quelle stelle erano probabilmente morte, e noi con ogni probabilità eravamo un incredibile caso chimico e fisico.
«nascere, non è caso ideologico medico etico
e antecedente all’idea di diritto divina
conseguenza d’amore»
Pensai al paradosso di Fermi. Era interessante.
«CHI LO VOLE UN PANINOO!? C’è lo sconto, devo finì la porchetta!» – Urlò Gigi, il barman –
Fui come svegliato. Vidi Boccetta in un angolo che affilava i coltelli. Decisi che era il momento di tornare a casa.
Salutai Gigi, mi incamminai. Ripassai davanti alla stazione, tra le case, davanti «la casa bella».
Arrivai a casa mia. Girai la serratura nella porta, entrai in camera. Elisa non c’era; come sospettavo. Sul tavolino c’era un biglietto:
«Non credo sia giusto che si vada avanti. Tu non provi niente. In bocca al lupo.»
La sua roba era sparita. Mi misi a sedere sul divano. Mi tenevo in mano la testa. Poi mi alzai, andai in terrazza. Alzai lo sguardo. Le Pleiadi splendevano al loro posto nel cielo. L’universo se ne frega, comunque vada.
Non ero triste, ero scoraggiato. Avevo trovato una persona apposto, finalmente, e l’avevo lasciata andare. Era tutta, interamente, colpa mia.
Mi venne in mente quel brano
«Che farò senza Euridice?
Dove andrò senza il mio bene?»
Mi misi a letto, mi riempii di sonniferi, e cercai di dormire.