[Grafica di Annibale di Lorenzo]
Il tempo passava e Prince si era abituato alla sua nuova casa. Lo lasciavo andare in giardino, che era molto grande per un bilocale. Era circondato da un vecchio muro di cemento, pieno di muffa verde. Non c’era una siepe intorno, ma esili alberelli cresciuti spontaneamente un po’ ovunque. C’era un grosso susino selvatico, ed altri due alberi di cui non conoscevo la specie. La parte del giardino più lontana dalla casa era sconosciuta anche a me. Era piena di piccoli alberi, molto giovani. Sulla destra c’era un fico. Poi intravedevo una minuscola costruzione di mattoni, alta un metro o poco meno. Forse era stato un pollaio.
Ogni tanto avevo paura di perdercelo, il gatto. Se si fosse perso nel boschetto in fondo avrei avuto bisogno di un machete per salvarlo. Confidavo però nel suo istinto felino di non rimanere intrappolato come uno scemo.
Era il dieci dicembre. C’erano ovunque decorazioni natalizie. Io soffrivo un po’ la solitudine, da quando Elisa se n’era andata.
«Non sai stare nemmeno un’ora solo con te stesso,»
Passavo il tempo a guardare immagini buffe su internet, senza interesse, senza averne voglia. Solo per non pensare, non pensare a niente.
«o mettere a frutto il tuo tempo libero, anzi,
eviti di guardarti nel cuore,»
Evitavo gli sguardi delle persone, campavo di panini che compravo in giro. Il frigo era vuoto da settimane.
«e come uno schiavo che fugge senza meta»
La notte uscivo, quasi sempre bevevo,
«e cerchi di ingannare l’angoscia ora col vino»
e la mattina dormivo più del dovuto perché non volevo vedere la luce del giorno.
«ora col sonno.»
Decisi che era arrivato il momento anche per casa mia di avere degli addobbi. Aprii l’armadietto della cucina e presi il cappello da babbo natale. Lo misi sul ventilatore di metallo che era rimasto lì dall’estate. Il ventilatore mi fissò, col cappellino che gli pendeva di lato.
Uscii di casa. Evitai accuratamente di passare davanti la grande casa bianca, memore del mio furto. Passai davanti alla via dei cinesi, e finii in piazza. La grande statua bronzea si copriva la fronte come sempre. Arrivai al bar.
Di fronte al bar c’era spesso un uomo. Aveva la faccia scura, l’espressione torva. Era magro, non basso, capelli neri, di età indefinibile tra i cinquanta ed i settanta, vestito in maniera un po’ antiquata, con dei pantaloni con la riga, verdi, polo, camicia, sguardo da pazzo. Leggeva sempre. Ci avrei voluto parlare, ma avevo paura di disturbarlo.
Entrai dentro, presi una schiacciata da due euro e cinquanta. Quello era il pranzo e la colazione. Guardai di nuovo il tipo che leggeva.
Se il mercato letterario non fosse stato pieno di tutti quei troiai, probabilmente avrebbero letto di più anche me. Il fatto è che c’erano personaggi che vendevano solo perché erano famosi, completamente senza tenere di conto la qualità. Ai tempi di Dostoevsky questo non succedeva. Ma l’età dell’oro era passata.
Siamo nei vicoli dei ratti
Dovevo comunque riuscire a finire il mio cavolo di libro sul Neanderthal e trovare un editore serio, questa volta. Mi ero rotto dei piccoli editori. I libri precedenti erano sempre usciti per editori piccoli ed avevano sempre venduto poco. In campo editoriale più è grande la casa editrice, più vendi. Quasi sempre.
Si stavano avvicinando Natale e capodanno, ma non avevo molta voglia di festeggiare. Lavoravo poco, guadagnavo poco. Cominciavo ad avere pochi soldi.
In città c’era un trenino che faceva il giro del centro. Era pieno di bambini e dei loro genitori. L’autista era serio e svogliato, guidava scampanellando. I bambini ridevano, i genitori ridevano perché vedevano i bambini contenti.
Io invece ero più dell’umore dell’autista.
Andai alla stazione. C’era un tipo seduto su un gradino fuori. Era completamente pieno di cicatrici. Aveva cicatrici di ogni tipo sulle mani, sul volto, sulle braccia che si intravedevano dalle maniche alzate. Lo avevo già visto ad agosto, era messo male anche sul petto e sulle gambe. Portava un gilet, allora, senza nient’altro sotto. Credo gli facesse piacere mettere in mostra le sue cicatrici. Chissà cosa significavano quelle cicatrici, e perché ne era orgoglioso.
Lessi l’orario sui tabelloni, il treno non era in ritardo. Salii, andai al paesello dove avevo l’ufficio.
Il pomeriggio si svolse senza eventi degni di nota. La sera tornai a casa e mi preparai un persico africano in salsa di pomodoro.
Con gli anni avevo un po’ imparato a cucinare. Più che altro perché le cose raffazzonate non mi piacciono, non che provassi davvero piacere ad armeggiare in cucina.
Lessi un po’ Mishima. Come era elegante. Non era freddo, era tiepido. Come la lama di una katana usata per aprire un ventre. Povero Yukio.
Decisi di uscire. Casa mia era un disastro ormai, da quando Elisa non c’era più. La maggior parte dei miei vestiti erano ammassati in maniera caotica sul lato del letto dove non dormivo. Ogni giorno pescavo qualcosa da quel marasma e mi preparavo ad uscire. Nel lavello c’erano i piatti sporchi di una settimana. Sul pavimento le briciole di pane si ammassavano intorno al battiscopa, come una folla che cerca disperatamente di scappare da una tragedia. Le sedie erano impolverate, il tavolo sporco. Dovevo decisamente rimettere tutto in ordine, la situazione stava diventando proibitiva per la sopravvivenza umana. Probabilmente però ormai avevo un sistema immunitario che poteva sconfiggere senza problemi la peste nera.
Tra l’altro la Peste Nera aveva l’ottantacinque percento di tasso di mortalità nel milletrecento. Quella si che era una pandemia.
Il cielo era velato, c’era la luna. Mi incamminai verso il Purple. Fuori c’era molta gente, come sempre. Era venerdì.
Avevo fissato con Andrea e una nostra amica di nome Giorgia. Erano le undici e mezzo. Andrea aveva già davanti a sé i bicchieri di due Long Island, il terzo lo teneva in mano. Giorgia non beveva mai. Giorgia risparmiava sempre, campava con una miseria. Probabilmente viveva meglio di molti di noialtri che qualche soldo lo avevamo, perché è vero che aveva pochi soldi, ma spendeva poco. Comprava le scatole di cartine delle sigarette dove c’era qualche cartina in più e che costavano dieci centesimi in meno. Voglio dire che non è che comprava quelle perché le piacevano, le prendeva per il miglior rapporto qualità-prezzo, per risparmiare dieci centesimi. Io avevo picchiato la macchina e fatto un danno da diecimila euro. Lei la macchina non ce l’aveva. In totale quanti soldi aveva risparmiato senza auto tutti quegli anni? Niente benzina, niente bollo, niente assicurazione. Decine e decine di migliaia di euro. Però anche niente macchina. Beh, io preferivo decidere dove andare e non essere in balia degli eventi. Prima o poi avrei dovuto riparare la mia.
Salutai tutti, mi avviai verso il bancone per prendere qualcosa. Il locale era pieno di gente. C’erano manifesti di film alle pareti, manifesti di vecchi film che sventolavano lievemente quando le cameriere passavano, quasi correndo, a portare i drink ai vari tavoli.
Arrivai al bancone. Salutai una cameriera con la quale parlavo spesso. Una volta l’avevo sentita canticchiare dietro il bancone, le avevo detto che era brava. Secondo me doveva insistere, prendere qualche lezione. Ormai era un volto amichevole.
«Ciao Matteo, come va!?»
Socchiusi gli occhi, sto
supino nel trifoglio
e vedo un quatrifoglio
che non raccoglierò.
«Bene» – mentii –
«Che ti faccio?»
Presi un whiskey torbato. Stavo sputtanando tutti i soldi. Certo però va detto che la percentuale alcolica del whiskey è molto buona, quindi alla fine si rivela relativamente a buon mercato se vuoi ubriacarti.
Vidi Serena al banco. Linea delle sopracciglia nettissima, lunga, elegante. Bocca piccola e carnosa, tratti dolci, sguardo di marmo.
The fucking pubs are fucking dull
The fucking clubs are fucking full
Of fucking girls and fucking guys
With fucking murder in Their eyes
La conoscevo bene. Ci ero già uscito.
«Allora, matteoaringhieri?» – Chiese con un sorriso. Il sorriso era simpatico –
Alla fine anche lei era simpatica, solo che era anaffettiva.
«Siamo qui. Beviamo. Respiriamo. Va meglio che ad altri»
Ci mettemmo a parlare. Si era messa finalmente a lavorare sul serio. Era un’artista, una pittrice. Era pure brava, aveva esposto in varie mostre in Italia ed anche qualcosa all’estero, ma non si campa con l’arte. Avevo un sacco di amici artisti, ma nessuno ci campava davvero. Anche gli artigiani fanno fatica, ma lì perlomeno ce la puoi fare. Lei alla fine era andata a lavorare in una gioielleria.
Continuammo a bere. Lei offrii, io offrii. Scherzavamo, ridevamo. Lei mi parlò un po’ dei suoi problemi. Preferiva quando aveva molto più tempo libero e dipingeva. Adesso non dipingeva più, quell’epoca era passata. No, non lo poteva fare nel tempo libero, aveva bisogno della mente libera. No, serviva più tempo. Ed io? Non avevo voglia di alzarmi la mattina. Nessuno ha voglia di alzarsi la mattina. Ma io proprio per niente. Per tutti è così.
Non ne uscivamo, ma era comunque una conversazione divertente.
Arrivarono Giorgia ed Andrea, mi dissero che andavano da un’altra parte. Li salutai.
Alla fine eravamo stanchi di stare lì. Volevamo andare da qualche parte. Decidemmo di andare a ballare. Ma dove, era l’una e mezzo. Il Saturn. Il Saturn era aperto. Si, l’età era un po’ bassa, ma era giusto per farsi un giro.
Montammo sulla sua macchina. Lei mise una canzone che avevo sentito in un film. Sentivo il testo che diceva «money, success, fame, glamour». Le si addiceva.
Guidava veloce.
«Guidi veloce.»
«Hai paura?»
«No»
«Allora perché me lo chiedi.»
With fucking murder in Their eyes
Arrivammo, parcheggiammo non lontano. Il posto era in una zona industriale. Era un locale di musica dal genere indefinito, non era rock, non era commerciale, non so cosa fosse. C’erano molte casse in quattro quarti. La musica si sentiva bene da fuori.
Entrammo. Ci chiesero la carta di identità. Lei protestò.
«A che vi serve la carta di identità?»
«È la regola»
«È una regola del cazzo» – Gli disse, tirando fuori la carta. –
Entrammo. Dentro c’era ressa, era pieno di gente nei primi vent’anni. Lei si fece strada tra la folla, arrivammo alla cassa. Conoscevo i barman da un sacco di tempo. Lei insistette per saltare la fila. Decisi di accontentarla. Salutai Alessio, gli chiesi come andava. Era il proprietario, il locale era colmo. Si capiva che andava bene. Prendemmo due Gin Tonic. Lei si spostò sotto le casse, cominciò a ballare. Ero alticcio, cominciai a ballare pure io. Da lì a poco cominciai a toccarle i fianchi. Erano morbidi, sotto il cappotto di pelle nero. Lo spostai di lato, le misi una mano sul culo. Continuavamo a ballare, a sincrono. La girai, le misi entrambe le mani sulla vita, che era scoperta per via della maglia corta. La vita era sottile, calda. Feci scorrere le mie mani su, scorrendo sui fianchi, sul torace, fino alle ascelle. Misi i miei pollici proprio al di sopra dei suoi seni. Incominciai a spingere con i pollici verso l’alto. Vidi i piccoli seni muoversi impercettibilmente. Le misi entrambe le mani sul culo, lo spinsi verso di me. La sua bocca era piccola, ci appoggiai le labbra. Non la baciai. Feci risalire la mano destra lungo la schiena, passando forte le dita ad uncino tutto sopra la colonna. Con l’altra mano le palpavo il culo, poi la mano destra salì ancora, fino alla nuca, e si serrò intorno ai capelli di lei. Con quella mano spinsi la sua testa verso di me, le sue labbra sulle mie, ficcandole la lingua in bocca.
Cercai di mettere la mano sinistra da un’altra parte, ma lei mi tirò uno schiaffo. Continuai a pomiciarci. Lei si girò e cominciò ad agitarmi il culo addosso. Io ballavo, e le tenevo i fianchi. Mi dava come l’impressione che stesse dicendomi «stasera potrai scoparmi». Non mi sembrava davvero attratta da me. Cominciai a diventare meccanico nei movimenti. Lei si accorse del mio improvviso calo di interesse e ne approfittò per andare in bagno. Andai nel bagno degli uomini.
Quando uscii non la vidi. Feci un giro del locale, non la vedevo più. Uscii fuori, davanti al locale, tra la gente nel piccolo piazzale, ma lei non c’era. Feci un controllo poco più che pro-forma, andai dove avevamo parcheggiato la macchina. La macchina non c’era più.
Presi il cellulare.
«Sei molto insicura, Serena» – scrissi –
«Sei tu insicuro»
«Io sono sicurissimo»
«Torna a piedi» – numerose faccine –
«C’è una bella luna in cielo. Mi piace camminare di notte.»
Le mandai una foto della luna.
In realtà stavo già camminando dopo il primo messaggio. Sapevo come sarebbe andata a finire. Mi persi un paio di volte nella zona industriale, su strade mortifere e deserte. Arrivai sulla statale. Erano le tre. Ogni tanto passava qualche macchina, velocissima, accanto a me, che avevo camicia, cappotto lungo, le scarpe eleganti, e camminavo in una strada senza marciapiede. Sulla destra c’erano i campi, verdi. Il vento invernale soffiava leggero. Io ero ubriaco. La luna splendeva alta. C’erano le stelle.
Era bello essere vivi.
Trovai un bullone di un camion, del cerchione, grosso e massiccio. Me lo misi in tasca. Attraversai zone di campagna, due o tre rotonde, periferia, infine arrivai in città.
Dopo un’ora e mezzo di cammino ero a casa.