Bandiera – racconto


Un vecchio racconto che scrissi durante un corso di scrittura creativa. È una storia molto cupa e psicotica, ambientata in una città che conosciamo bene. Ai tempi piacque molto ad una persona autorevole in campo letterario. Gli allego un’immagine che non ci incastra praticamente niente, se non a livello emotivo.

I

Era annoiato, quella notte. Era entrato in quello stato di catalessi che lui chiamava “la meditazione cattiva”. Stava guardando la televisione, ma l’aveva spenta.
Sedeva sul divano, aveva gettato il telecomando in terra, e fissava uno schermo nero.

Il cervello andava veloce, fin troppo. I pensieri gli correvano in testa, senza trovare cause né giungere a conclusioni. Ripensava a tutti i fallimenti, tutti i torti che aveva subito nella vita. Con una mano si tormentava tempia e capelli.

Realizzò che non portava a nulla passare il tempo così. Ci voleva qualcosa, una cosa qualsiasi. Automaticamente andò in camera e si tolse la tuta; si infilò una camicia poco stropicciata, un paio di pantaloni non sporchi, le scarpe, ed uscì fuori.

“E ora?”
Si mise a camminare, era nervoso. Non sapeva dove andare, né a far che. Gli tornò in mente un suo amico che gli parlava sempre di un posto, distante qualche chilometro, dove per entrare dovevi suonare il campanello e che era aperto fino a mattina.

Si ricordava all’incirca le indicazioni e quindi continuò a camminare, a passo sostenuto, per venti minuti buoni.
Poca gente in giro, quella notte. Turisti, perlopiù. C’era una via piena di locali, chiassosi, frequentati da gente giovanissima. Non voleva entrare lì dentro… sarebbe sembrato un vecchio maniaco. Gli era capitato spesso di sentirsi vecchio e maniaco, anche da solo a casa.

Passò davanti ai locali guardando di sbieco. Una ragazza era tenuta per un braccio da un’amica, la stava aiutando a rialzarsi, ridevano. Poco più in là un ragazzo stava piegato in due con le mani sulle ginocchia e vomitava.
La musica era piuttosto forte, anche da fuori. Non era ancora freddo, le ragazze avevano le gambe scoperte. Quel demone che un tempo gli rodeva così forte ultimamente era acquietato, domato. Era però morbosamente attratto dalle scene di degrado. Gli aveva raccontato un tipo che una volta era entrato lì dentro, e dopo cinque minuti era finito in bagno con una sconosciuta. Dopo altri cinque minuti questa si era addormentata e lui l’aveva lasciata lì, sul cesso.
Questo era interessante, più degli edifici antichi lì vicino.

Continuò a camminare, oltrepassò un ponte. Sbagliò strada un paio di volte, cercò di orientarsi. Alla fine arrivò dove doveva arrivare. C’era una porta a vetri, una debole luce veniva da dentro. Sopra la porta un’insegna al neon da film americano, ma piccola. Era in

una bella strada, probabilmente di età rinascimentale. Suonò il campanello.

Un omone nero in giacca e cravatta gli aprì la porta. “Tessera”. “Non ce l’ho”. “Falla da lei”, indicando una tipa che, ad occhio, aveva avuto più di un intervento estetico. Accanto a questa una bella ragazza, forse meno che ventenne. Facce sorridenti, amichevoli, gentili. Gli si allentò un po’ l’astio generale. Fece la tessera, pagò, lo ringraziarono.
Il locale era bello. Estremamente kitsch, pieno di riproduzioni di opere d’arte antiche, ed i muri erano a fantasia leopardata. Leopardata? Passò dal bagno… era incredibile. Era un concentrato di arte barocca, un capolavoro di un cattivo gusto ricercatissimo. Il lavandino era una conchiglia, il bagno aveva una specie di sala d’aspetto, c’era una fontana ed un divano pieno di cuscini appoggiato alla parete.

Si sentì a casa.
Andò al bancone ed ordinò un Gin Tonic. Gli piaceva il Gin Tonic perché non sembrava uno dei soliti intrugli dolcissimi, come la maggior parte dei cocktail. Era secco ed amaro e lo potevi sorseggiare piano, ti faceva compagnia.

Vicino a lui c’era un uomo sulla trentina che offriva da bere a tutti. Era molto espansivo, troppo. Probabilmente aveva tirato su qualcosa. Rideva, salutava tutti, chiamava tutti al banco, continuava ad offrire da bere.

Dopo un po’ si stufò di tutto quel chiasso. Però nessuno gli dava troppe attenzioni, alla fine la situazione era cordiale. Decise comunque di farsi un giro al piano superiore.

C’era una specie di musica caraibica, Bossa Nova o qualcosa di simile. C’erano anche delle belle ragazze che bevevano con i bicchieri appoggiati su dei tavolini bassi. Ridevano. La fantasia leopardata era praticamente onnipresente, e poi c’erano piante appese al soffitto e tappeti un po’ ovunque.

Salì una scala stretta, ricoperta da un tappeto, che portava al piano superiore.

Arrivato in cima si trovò in un’area dal soffitto basso, divisa in varie sezioni, separate da muretti ricoperti di legno che arrivavano alla vita, ed oltre i quali potevi vedere coppie stravaccate su divanetti simili a letti. Molti fumavano. Ma si poteva fumare dentro un locale?

A destra, nascosto in una nicchia, davanti ad piccolo tavolo, c’era qualcuno.
Si avvicinò senza guardare direttamente, ma di sbieco si accorse che era una donna. Di circa

cinquant’anni, guanti di pizzo neri capelli neri, gonna nera con rifiniture dorate.

Si mise a sedere su una poltrona lì vicino, gin in mano. Decise di accendersi una sigaretta. Guardò la donna. Lei gli sorrise. Aveva delle carte davanti, che appoggiava sul tavolo, girava, rimetteva nel mazzo.

Continuò a bere. Si guardò un po’ intorno… scosse la sigaretta in un portacenere di ceramica nera. La gente intorno a lui rideva, fumava, scherzava. C’era chi giocava a dei giochi da tavolo per bambini.

Finì di bere, finì la sigaretta. Si guardò intorno… e vide di nuovo la donna che lo guardava.

Decise di andare lì.
“Salve” – disse lui sorridendo –
“Cosa fai da queste parti?” – Aveva i denti macchiati dal caffè – “Non lo so.”
“Vuoi che ti faccia le carte?”
“Boh… ok”
“Mettiti a sedere.”

Il tavolino era di legno marrone scuro, pieno di graffi e segni d’usura, in legno massello, piuttosto vecchio. La tipa si mise a mischiare le carte.
“Di cosa ti occupi?”
“Di niente.”

Tirò giù una carta, lentamente, molto lentamente, guardandolo negli occhi. Appoggiò prima il fondo della carta, poi il centro, e, sempre tenendola tra l’indice ed il pollice, la fece schioccare sul tavolino.

Poi sorrise.

“Non fai molto, vero?”
“No, non molto. Perdo tempo perlopiù.” “Qui c’è un bel bagatto”
“Un che?”

Prese un’altra carta dal mazzo, lentamente. La appoggiò sul tavolo, la fece schioccare. C’era disegnata sopra una donna su un trono, con una bilancia ed una spada.
“Hai subito qualche torto, ce l’hai con qualcuno?” – Chiese lei –

“Tutti e nessuno in particolare” – Rispose lui –

Pescò un’altra carta, gliela mostrò:
“Non da prendere letteralmente, ovvio” – Disse sorridendo –

C’era uno scheletro con una falce. La tunica nera eccetera. Insomma, era chiaro, la rappresentazione standard.

Lui ringraziò, le strinse la mano, le dette dieci euro, ed uscì. Fuori era fresco, ed era molto tardi. Decise di tornare a casa.

Per strada una berlina nera lo superò. Proseguì per qualche decina di metri e fece un’inversione ad U.
La berlina nera gli passò accanto. Dentro un uomo in giacca e cravatta lo fissava.

Continuò a camminare a passo spedito. Passò davanti ad un portone, ed ebbe un sobbalzo. Il portone era chiuso, ma c’era dentro qualcuno vestito di nero, con una felpa nera ed il cappuccio tirato su, che fumava. Non si vedeva in faccia, e guardava davanti a sé.

Accelerò ancora il passo, e vide una macchina della polizia. Dentro c’erano due poliziotti che quando lo videro si misero a parlare tra di loro, poi salirono e gli passarono accanto. Continuò a camminare, sempre più veloce e sempre più sudato, finché non arrivò a casa.

Girò nervosamente la serratura, entrò.
Tornò sulla poltrona, seduto, tormentandosi tempia e capelli.

II

-“Non avete visto il momento in cui l’hanno legata alla ringhiera”- Disse una voce spaventata dalla televisione appena accesa.

Era un servizio del telegiornale, stava parlando un testimone oculare di una violenza, la faccia sconvolta.
Si immaginò la scena… la tizia legata, lo stupro. Sembrava uscita da un film hard sadomaso. Abbastanza surreale.

Lui non aveva mai compiuto una violenza carnale. Però ogni tanto ci aveva fantasticato su

… niente più che pensieri, vagheggiamenti. Continuò a guardare il servizio. Il testimone aveva assistito al fatto da lontano, impaurito, senza far nulla, scappando quando i due tizi se ne erano andati via.

Sul posto era stata ritrovata una bandiera di un gruppo di estrema destra, oltre alla donna, in stato confusionale.

Da giovane aveva militato in uno di quei gruppi. Era passato molto tempo, ed un po’ se ne vergognava. Ne aveva fatto parte, e gli era sembrato tutto grande ed importante.
I raduni, le riunioni, la musica politicizzata, il volantinaggio. L’ostracismo da parte della cosiddetta gente comune, borghesi, termine con cui chiamavano quasi tutti. Il culto dei regimi, l’adorazione degli squadristi, l’idealizzazione del ventennio.

A ripensarci si sentiva un po’ in imbarazzo. Che gli passava per la testa? Ah, giusto. Si sentiva solo come un cane. Emarginato, rifiutato. Aveva trovato qualcosa di cui fare parte, qualcosa a cui appartenere. Alla fine si era reso conto che era un micromondo, e tutta quella importanza la vedevano solo lui ed i suoi cosiddetti camerata.
Aveva capito che era tutta una buffonata, e quindi aveva smesso.
Adesso non andava più a votare, non aveva più nessun interesse verso le cose della politica.

Però ogni tanto ci ripensava. Aveva paura di esser stato schedato. Aveva paura che qualcuno lo cercasse per fargli pagare quell’appartenenza giovanile, che lo controllassero ancora.

Che la gente che aveva trovato nel tragitto verso casa seguisse davvero lui? E la chiromante che gli aveva predetto la morte?

Era quasi mattina, non riusciva a dormire. Una luce entrò dalla finestra, sembrava un faro od una torcia.
La televisione continuò a parlare dei gruppi di estrema destra e di come il fenomeno fosse ancora fin troppo vitale.

Un politico dichiarò: “Prenderemo provvedimenti, non solo su chi ne fa parte adesso, ma anche su chi ne ha fatto parte in passato”.

La polizia che aveva incontrato nel ritorno a casa lo seguiva, sicuramente. Erano settimane che si sentiva osservato. Lo stavano cercando.

Sentì suonare alla porta.
Abbassò il volume della televisione, senza spegnerla. Si allontanò piano, andò in camera.

Non riusciva a dormire. Stava sul letto, con gli occhi spalancati che guardavano il soffitto. Suonò il telefono. Non fece nulla, lo lasciò squillare.

Sentì bussare alla porta, dei bei colpi.
Si alzò, chiuse a chiave la camera. Andò al comodino, frugò nel cassetto. Trovò la scatola dei sonniferi.

Uno ad uno li estrasse dal blister, e li ingoiò, a manciate. Poi si distese sul letto e chiuse gli occhi.

Dopo un’ora entrò la polizia insieme alla padrona di casa, che lo cercava per l’affitto.


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