Il Marchese del Grillo era un celebre personaggio popolare della Roma del 1700. Nobile di famiglia, trascorreva i suoi giorni architettando machiavellici scherzi ed intrattenendo relazioni libertini con donne di qualsiasi ceto.
In questo estratto il nobile Del Grillo, incurabile donnaiolo, nonostante avesse da tempo una relazione stabile con una bella e ricca vedova, fa da “cavalier servente” alla duchessa Pilar, con la quale ha un’altra relazione.
Per via di un “diritto di passaggio” di carrozze in uno stretto vicolo di Roma con un’altro nobile, la situazione degenera.
Questa è la scena che ci descrive Luca Desiato, che nel suo romanzo afferma di aver raccolto le memorie scritte del marchese, del suo servo, e vari racconti tramandati oralmente dal popolo di Roma.
Estratto del capitolo “Diritti di Precedenza”, Il Marchese del Grillo, Luca Desiato
Don Carlo Albani, pimpante nella sua giovane età (è già colonnello delli dragoni per volontà nepotista) s’è affacciato pure lui alla finestrella, la criniera irta di capellone benestante.
«Avanti, avanti», ordina al proprio conducente, «ci sono dieci scudi per te, se ti levi da ’st’impiccio!».
«Marrano, ciambellano del boia», prende d’aceto la Duchessa, «che sei guercio, tu e il tuo cocchiere, che non avete riconosciuto lo stemma?!».
E l’avversario, di rimando, per nulla intimorito, pareggia gli improperi a voce spiegata: «Ammesso e non concesso che ci abbiate la precedenza, la strada io l’ho già percorsa per intero, perciò voi non fate tanto li sorcetti furbi, ché stavate appena entrando, quindi ciò io il diritto d’uscita ». Non l’avesse mai detto. La Duchessa, che qui a Roma chiamano la “fulminante” per l’indole boriosa e superba, esplode in vituperi: «Cedi una buona volta il passo, calascione, chi credi di essere?! Scarabattolo, girandola de pidocchi, nipote mantenuto, e maricòn de mierda!», e rientra. Ne ha espressi tanti, d’epiteti, da fornirci abbondante materia a più d’una replica. Non contenta, appesantisce la situazione con delle manovre oblique, si sente infatti la carrozza ribollire, segno che va sobillando il Marchese perché intervenga, lui che non s’è ancora affacciato, segno che vorrebbe risolvere la cosa con le buone. E non è viltà, la sua, piuttosto un momento de soprappensiero, ché altre volte è bastato un esclamativo for de loco a farlo tutto sfiammeggiare.
Allora riappare la gran dama, a rincarare la dose: «Vade retro, grugnaccio de saracino, buzzurro, chuapamedias delli francesi! Cedi il passo a Maria del Pilar, figlia dell’Ambasciatore del Re Cattolicissimo e Duchesso d’Uzeda». Dalla carrozza di Don Carlo, a salace commento, sorge, si dilata e prolungandosi s’innalza una madornale pernacchia. Urlo accalorato della suddetta Duchessa, smontata nel meglio dell’albagìa. E a questo punto il Marchese, stante l’offesa alla dama della quale è attualmente il cavalier servente, apre la porticina, scende con un balzo dalla carrozza e, col suo bastoncino da passeggio, va a percuotere il cocchiere di parte avversa, dato che il suo principale ha ritenuto opportuno schivare la botta chiudendo a tempo la finestrella.
La situazione è drammatica, l’universo è fermo, i lumicini accesi davanti alle Madonne dei crocevia hanno smesso di palpitare. Sono state infrante almeno ventiquattro norme del codice delli gran signori.
Gira di qua, gira di là, ne la città di Cesare trovi sempre qualcuno che te ce dà. «Màtalo, màtalo!», rompe forsennata il silenzio Maria del Pilar, non si sa se intendendo il povero cocchiere, o l’anima nera di Don Carlo. Adesso, mentre che li cavalli raspano il selciato, impediti, poiché le carrozze sono un unico incastro di rote e sonajere, la contessa è salita di tono, essendosi passati a offese privilegiate di prima classe, ossia alle frustate. Il cocchiere di parte avversa, infatti, per difendersi o semplicemente con intento dissuasivo, t’allonga ’na scudisciata che piglia il Marchese giusto in mezzo alla schiena. Replica del mio padrone: «A te, lacchè, io non te conosco, ma dico a quer pidocchio rifatto del padrone tuo: scenni, disgrazziato! Che t’insegno a rimette li zeppi a le cerase!».
Don Carlo non scende, ma si riapre la finestrella, e ne esce un improperio solenne, di prima categoria, con un sarvognuno di ricami: «Ma chi sei?! Ma che vòi?! Ma vedi d’annàttene, cazzabbùbbolo laureato, te e la mejo anima delli mortacci tua, e de li tu’ padri, ché ce n’hai quant’un sordo de semolella!». Al Marchese toccagli tutto, meno che la faccenda del padre! Così, abile quant’altri mai nello spurgarsi dal catarro (capace di centrare un bersaglio sette metri lontano), proietta ’na saetta de sputacchio che finisce dritta in faccia all’Albani, e l’allaga. Dalla losca finestrella esce adesso una mano inanellata che stringe un guanto, l’appallottola, prende la mira: tiro. Anche la mira di quello non è scarsa. Il mio principale viene preso in un occhio. La mia ignoranza in fatto d’etichetta nobile mi fa credere che, ora, uscirà finalmente dal guscio il tiratore scelto e si proietterà addosso al contendente, e s’inizierà un bel corpo a corpo alla maniera plebea, una scazzottata ballerina con tanto di caracche e occhi pisti. Invece, niente di tutto questo. Le acque si calmano come d’incanto.
«Sono a vostra disposizione, Don Carlo», dice con voce cerimoniosa il Marchese. «Servo vostro, nobile del Grillo», risponde l’altro con tono oltremodo cortese. «Con che arma ci daremo soddisfazione?», chiede il padrone mio. «Lascio a voi la scelta». «Vi ringrazio per la degnazione. Ma avete qualche preferenza?». «Per me va bene tutto. Mandatemi li padrini a palazzo». «Se non vi disturba, preferirei che me li mandaste voi, li padrini». «Non c’è di che. Ariservo vostro. Domattina, appena suonata la campana della prima Messa, avrete li padrini».
Grazie di qui, arifiguriamoci di là, bella serata di qui, buon passeggio di là, il minuetto va e viene, con forbita gentilezza e squisito senso delle proporzioni. Il Marchese risale in carrozza.